Da Cerzeto a Rota Greca
dove l'accoglienza è di casa
Un viaggio all'interno della rete di ospitalità nella Catena Costiera cosentina
tra tradizione e attualità
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Una comunità di accolti continua ad accogliere
Siamo una comunità di accolti e continuiamo ad accogliere.
Le parole di Daniele Parise sono estremamente evocative. Nella loro potenza descrivono bene la sensazione che si prova immergendosi tra le strade di Cerzeto, Rota Greca o degli altri comuni della zona. Se infatti, per qualche assurdo motivo, vi trovaste mai a passeggiare tra i vicoli di quei piccoli borghi di montagna che formano la Catena Costiera che divide Cosenza da Paola, davvero non sarebbe difficile incontrare africani o mediorientali. Il motivo è da ritrovarsi proprio in persone come Daniele, coordinatore del Progetto SAI “Cerzeto Solidale”.
SAI è l’acronimo di "Sistema di Accoglienza e Integrazione" che, a partire dal 2020, ha sostituito i precedenti SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e poi SIPROIMI (Sistema di protezione per titoli di protezione internazionale e per minori non accompagnati). I SAI rappresentano una realtà da tempo presente nell'area montana che separa Cosenza dal suo litorale.
Era il 2010, infatti, quando ad Acquaformosa nacque l’Associazione Don Vincenzo Matrangolo, allo scopo di assistere e tutelare la vita e i diritti dei migranti in arrivo sul territorio italiano. Da lì in pochi anni venne tessuta una fitta rete di accoglienza, promossa da associazioni virtuose, che di fatti si estende ancora oggi a tutta l’area.
Il funzionamento è molto semplice. I comuni, enti titolari del programma di accoglienza, affidano l'attività in gestione a un secondo ente del terzo settore tramite apposita gara. Attraverso questo iter burocratico, la Catena Costiera si è riempita in pochi anni di una fitta rete SAI. E lo ha fatto nell'unico modo possibile in un territorio come questo: il passaparola. Sindaci, amministratori, membri delle associazioni amici tra loro hanno voluto condividere la propria esperienza personale e di comunità, ispirando di volta in volta con il proprio esempio sempre più realtà limitrofe ad avviare il proprio centro di ospitalità.
Quello che ne è venuto fuori è una comunità vasta che si è riscoperta portatrice di un sentimento di solidarietà e amicizia che affonda le radici in una tradizione secolare.
Come accennava Daniele, infatti, queste comunità montane hanno il gene dell’accoglienza marchiato a fuoco nel proprio DNA. Era il XV secolo quando i primi albanesi furono costretti a scappare dalla propria terra sotto la spinta dell’invasione ottomana in patria. Molti di loro trovarono rifugio in Italia meridionale, dividendosi tra Puglia, Lucania e Campania.
Una grande percentuale, però, si spinse ancor più a Occidente, cercando asilo presso i ducati longobardi della Calabria tirrenica. I princìpi locali gli concessero dunque ospitalità proprio in quella stessa Catena Costiera che ancora oggi è conosciuta come sede di una delle più grandi comunità arbëreshë al mondo.
E a ben vedere, l'intero territorio è ancora fortemente caratterizzato da questa naturale interculturalità. L'intreccio tra la tradizione italiana e quella albanese si respira ovunque nell'aria. Basta ascoltare le persone comunicare tra loro nel proprio dialetto particolare... o anche solo guardandosi intorno per strada. D'altronde, i cartelli stradali di Cerzeto parlano chiaro!
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Tutti i cartelli hanno la doppia scritta, in italiano e in arbëreshë
Tutti i cartelli hanno la doppia scritta, in italiano e in arbëreshë
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Comune di Cerzeto, Borgo Arbëreshë
Comune di Cerzeto, Borgo Arbëreshë
Mentre ci arrampichiamo sulla dorsale appenninica, non possiamo non renderci conto che, oltre che nello spazio, il viaggio che stiamo affrontando è senza dubbio anche nel tempo. Più ci si allontana da Cosenza, più sembra infatti di tornare ad anni fa, quando la vita si svolgeva completamente all’interno del proprio paese d'origine. Per molti di noi potrà sembrare una condizione non sostenibile, ma per chi è nato in quel territorio questo rappresenta l'unico concetto di comunità: pochi abitanti, tutti che si conoscono l'un l'altro.
E la cosa è evidente fin dalla macchina. Chi ci accompagna a destinazione suona il clacson ad ogni auto che incrocia lungo il nostro tragitto: sarebbe una mancanza di rispetto ed educazione non salutare.
Arriviamo a Cerzeto per ora di pranzo e ci dirigiamo verso casa di Maria Ida Barbuto. Maria Ida è la responsabile di un ampliamento del SAI di Cerzeto, attivato nel vicino comune di Rota Greca.
L’atmosfera che si respira in casa è quella di un classico pranzo domenicale in famiglia. La qualità del cibo in tavola è seconda solo alla gentilezza e all’accortezza con cui i nostri ospiti ci mettono a nostro agio per tutta la durata di quelle piacevoli ore in compagnia. Il fuoco caldo del camino sugella alla perfezione il momento.
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Tra una lagana ceci e salsiccia e una patata ‘mbacchiusa, la conversazione si fa subito molto conviviale. Quando ormai il pranzo volge al termine, chiediamo a Maria Ida e al marito di raccontarci come si sviluppa la vita in quei borghi. Inevitabilmente, il discorso scivola verso una delle maggiori piaghe che affligge tutto il Meridione, ma quelle zone un po' di più: lo spopolamento.
E in effetti, guardandoci intorno mentre ci accompagnano a visitare un'apposita mostra presso il bellissimo Palazzo Mayerà, non è difficile immaginare quanto quel territorio sia stato particolarmente colpito da questo trend negativo. Tra gli amici di infanzia con cui sono cresciuti, ci dicono, ormai solo due o tre abitano ancora in zona.
Lo spopolamento ha cambiato profondamente il tessuto sociale della Catena Costiera, che oggi risulta sempre più vicino all’abbandono.
Lo stesso Daniele, prima del pranzo, ci aveva raccontato il caso emblematico della scuola di Cerzeto, che descrive bene il tipo di sfide che gli amministratori sono ormai troppo spesso costretti a fronteggiare in quel territorio.
Lo spopolamento e il caso dell'asilo di Cerzeto
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Ingresso di Palazzo Mayerà
Ingresso di Palazzo Mayerà
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Dettagli da Palazzo Mayerà
Dettagli da Palazzo Mayerà
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Dettagli da Palazzo Mayerà
Dettagli da Palazzo Mayerà
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Dettagli da Palazzo Mayerà
Dettagli da Palazzo Mayerà
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Dettagli da Palazzo Mayerà
Dettagli da Palazzo Mayerà
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Dettagli da Palazzo Mayerà
Dettagli da Palazzo Mayerà
Il concetto di mutuo soccorso sembra essere una chiave di lettura fondamentale per la rete di solidarietà della zona. Non a caso, anche Silvio Cascardo, vicesindaco di Cerzeto, nonché tra coloro che per primi nel 2014 decisero di avviare il progetto nel paese, tira in ballo un discorso simile. Intervistato all'interno della sala consiliare da poco allestita all'interno di Palazo Mayerà, il vicesindaco si sofferma infatti sui benefici che il SAI offre alla sua comunità. Pur facendo trasparire tutta l'emozione e il trasporto per quel progetto di accoglienza dei migranti che lui stesso ha contribuito a portare sul territorio, attraverso le sue parole riusciamo a ricostruire soprattutto l’importanza sociale ed economica che un’integrazione efficace assume nei piccoli comuni.
Il valore sociale ed economico dell'accoglienza per una piccola comunità
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Alcuni scatti dalla mostra “Noi Siamo: volti e immagini di resilienza” ospitata presso Palazzo Mayerà di Cerzeto (CS)
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Il cartello che accoglie i visitatori all'ingresso
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Il presepe in bilico : rappresentazione del mondo in cui viviamo oggi
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Il simbolo dell'integrazione all'interno della comunità di Cerzeto
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Di generazione in generazione
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L'universalità dell'amore
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I nuovi abitanti di Cerzeto
Dalle parole di Silvio emerge con chiarezza l'orgoglio per il lavoro svolto finora. E il vicesindaco non sbaglia: il caso della comunità di Cerzeto è infatti un fiore all'occhiello della rete d'accoglienza SAI formatasi sulle montagne che dividono Cosenza dal mare. Contrariamente al trend del territorio, il tessuto economico del paese sta infatti rifiorendo e molto lo si deve anche - e soprattutto - al contributo che i migranti stanno apportando alle attività locali.
Tra questi c'è Zubair Muhammad, un ragazzo pakistano di 24 anni arrivato nel piccolo borgo calabrese circa un anno fa. Quando ci accoglie in casa sua, Zubair ride e scherza con noi, creando subito un'atmosfera leggera. In quattro e quattr'otto il caffè è in tavola e iniziamo immediatamente a chiacchierare. Quello che traspare sin dalle prime battute è una forte determinazione: Zubair ha le idee chiare sul proprio futuro. Da quando è stato costretto a lasciare il Pakistan, la sua condizione è migliorata notevolmente. I motivi per cui è dovuto andar via preferisce non raccontarli davanti alle telecamere: sono estremamente personali e richiamano una condizione di vita estremamente grave e pericolosa, sia per lui che per la sua famiglia. L'arrivo in Italia ha quindi rappresentato una svolta fondamentale. Nonostante ciò, però, Zubair non si sente ancora completamente appagato. A microfono spento ci confessa infatti che il nuovo obiettivo che si è prefissato è quello di prendere quanto prima la patente valida a guidare i mezzi pesanti. Così facendo potrà finalmente ottenere un lavoro più remunerativo e potrà infine permettere ai suoi cari di raggiungerlo qui in Italia. Da fratello maggiore, sente il peso di dover essere lui, e non il padre, ormai troppo anziano, a trascinare fuori la sua famiglia dalla condizione che sono costretti a subire in patria.
Per Zubair riuscire a ricostruire un nucleo familiare unito in Italia rappresenta il sogno di una vita. Immerso tra le montagne cosentine, infatti, il pakistano ha sentito esplodere dentro di sé una sensazione bellissima, che aveva ormai perso da tempo: tra la gente di Cerzeto Zubair si è sentito di nuovo a casa.
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Quella che abbiamo appena ascoltato è una storia virtuosa di un'integrazione di successo. Andato via dal proprio paese d'origine, il Pakistan, per fuggire dal pericolo e provare a migliorare le cose per sé e per la sua famiglia, Zubair ha trovato in Italia una comunità pronta ad accoglierlo. Al suo interno ha cominciato a lavorare e studiare, seguendo un proprio percorso ben definito, aiutato dai funzionari del SAI e, soprattutto, dalla gente del posto. Nel territorio di Cerzeto ha trovato una nuova casa e una comunità che ha accettato la sua religione e le sue tradizioni. Un luogo felice, sicuro, in cui spera presto di poter far confluire il resto della sua famiglia, per iniziare insieme una nuova vita.
Magari si sposterà di nuovo, in futuro, verso il nord Italia, in cerca di migliori posizioni lavorative, in maniera poi non dissimile da tanti altri suoi nuovi coetanei del posto. Per ora, però, quel che è certo è che ha ritrovato finalmente un punto di riferimento, un luogo stabile dove sa di poter investire sul proprio futuro. Un po' come tutti noi speriamo di poter fare, d'altra parte, quando ci sentiamo a casa.
Esiste, però, anche un’altra faccia della medaglia, che emerge in maniera netta nella seconda storia che stiamo per raccontare. Ad introdurci alla questione è Maria Ida, mentre ci dirigiamo verso l'altra nostra meta. Rota Greca, un borgo lontano solo pochi minuti da casa di Zubair, rappresenta l’ultimo dei comuni, in ordine di tempo, ad essersi unito alla rete di ospitalità cosentina. Sul proprio territorio è stato infatti attivato un potenziamento del SAI di Cerzeto, valido per 12 persone con un background da profughi di guerra. A Rota non si trovano cartelli in arbëreshë, ma comunque il concetto di accoglienza è largamente diffuso tra la popolazione locale.
Durante il breve tragitto che ci separa dalla meta, Maria Ida ci mette a conoscenza di un problema abbastanza comune che le è capitato di riscontrare. Il discorso verte sul grado di soddisfazione con cui avviene il processo di integrazione dei migranti in arrivo. Pur essendo spesso tutti estremamente grati della nuova possibilità che hanno ricevuto, in alcuni casi si riscontra comunque un certo disagio personale. Molto - ci spiega - dipende dalla condizione di partenza delle persone coinvolte. La vita di Zubair, in Pakistan, era difficile. Oltre alle gravi disavventure personali che lui e la sua famiglia erano costrette a vivere, la loro condizione era estremamente povera: in patria non aveva avuto accesso agli studi e doveva arrangiarsi con lavori occasionali. Un qualsiasi luogo sicuro, insomma, in cui gli fosse stato permesso di lavorare e mantenersi dignitosamente avrebbe significato un sostanziale miglioramento delle proprie condizioni di vita. In casi come questo, anche una piccola comunità accogliente come Cerzeto rappresenta un’isola felice.
Immaginate però di essere costretti a scappar via da una situazione di benessere, sia economico che sociale. Di essere abituati a poter godere di servizi, comodità e comfort vari. Di punto in bianco, però, questa vostra vita viene stravolta da eventi di una portata tale da costringervi alla fuga dal vostro paese d'origine., In casi come questi, di certo non è l’agiatezza la prima condizione che si ricerca nel nuovo paese. Una volta, però, ritrovata una sicurezza e una stabilità che programmi come il SAI ti garantiscono, emerge in un secondo momento un altro elemento imprescindibile.
Solo perché si è stati costretti a scappare via per mettersi in salvo, non è giusto sottovalutare un dato importante come quello della qualità della vita. Per quanto la sopravvivenza sia un fattore molto più importante, a lungo andare non si può negare che anche altri elementi abbiano il proprio specifico peso sul proprio benessere psico-fisico. Chi ha toccato con mano uno stile di vita meno frugale non può non tenere in considerazione quanto perso, anche nel nuovo contesto in cui arriva. Il che non vuol dire non essere grato a chi lo ha salvato o alla nuova comunità che lo ha accolto. Semplicemente, può capitare però che il soggetto in questione viva un senso di insoddisfazione e frustrazione causato dall'essersi visto strappare via ingiustamente la vita alla quale era abituato.
Purtroppo, non sempre gli operatori hanno la possibilità di sopperire a questo disagio. La macchina burocratica, anche in casi particolarmente efficienti, non sempre riesce a creare un sistema che sopperisca alle questioni di livello più alto che la dignitosa sopravvivenza. Lo sanno bene le donne e gli uomini del SAI, che rappresentano il primo - e spesso unico - confronto possibile per chi vive questa profonda insoddisfazione.
In realtà già Daniele, nella nostra chiacchierata mattutina, ci aveva confessato quanto questa fosse una possibilità abbastanza comune per i migranti accolti nei piccoli centri.
Le difficoltà d'integrazione nelle piccole comunità
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Le panchine solidali
Le panchine solidali
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Dettaglio della panchina contro la violenza sulle donne
Dettaglio della panchina contro la violenza sulle donne
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Il campanile del paese illuminato
Il campanile del paese illuminato
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Dettaglio
Dettaglio
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Lo stemma del comune di Rota Greca
Lo stemma del comune di Rota Greca
La storia che state per leggere rientra perfettamente nello schema descritto da Daniele. È la storia dei Rahmani, una famiglia di origine afghana composta da una coppia di genitori sulla sessantina, a loro volta accompagnati da sei figli. Il padre era un alto ufficiale dell’esercito, inquadrato nella gerarchia NATO e per 14 anni impegnato fianco a fianco al contingente italiano di base ad Herat. Le moltissime foto che ci ha mostrato con orgoglio confermano il suo racconto. I figli, tutti molto giovani, vivevano una vita che prometteva loro un futuro più che roseo. Il più grande lavorava già come dermatologo all’ospedale di Kabul, nonché ricercatore in rampa di lancio. Un altro era una giovane promessa della nazionale di calcio juniores afghana. I loro fratelli e sorelle erano tutti ancora impegnati nel loro percorso scolastico.
Quella dei Rahmani era, insomma, una famiglia dell’alta borghesia afghana, abituata a vivere nell'agio e con mille possibilità aperte nel loro cammino.
Come sappiamo, però, la Storia sa essere estremamente crudele. Il 15 agosto del 2021, dopo il ritiro delle forze americane e NATO dal paese, i Talebani occuparono, dopo tanti anni di guerra intestina, Kabul, conquistando il pieno potere in tutto l'Afghanistan. Poco dopo l'Italia, come altri paesi europei, attivarono diversi corridoi umanitari per aprire una via di fuga alle persone che, per motivi di lavoro, erano particolarmente compromessi agli occhi del nuovo regime. I Rahmani, per ovvi motivi, rientrarono tra queste.
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Una precisazione di metodo: di questa seconda intervista non c’è alcuna testimonianza, né audio né video. Le persone coinvolte, per quanto disponibili e pronte a condividere con noi la propria storia personale, hanno preferito non essere registrati, né ripresi. Questa pagina resterà quindi nera, bucata esclusivamente dalla forza dello scritto, nel tentativo di restituire lo stesso, forte messaggio celato dietro le parole che leggerete.
Dunque, quella tacchetta sulla grande linea del tempo si intreccia a doppio filo con le vicende della piccola famiglia Rahmani. Quegli avvenimenti segnarono infatti l’inizio di un’epopea che, nel giro di poco più di un anno, li ha condotti fino a Rota Greca. Accolti con lo stesso calore e la disponibilità che abbiamo imparato a conoscere, tra gli ultimi arrivati e la loro nuova casa non è scoccata però la stessa scintilla d’amore che abbiamo avuto modo di raccontare per conto di Zubair. Estremamente grati alla comunità in cui si trovano ora, allo stesso tempo gli afghani in questione non nascondono una certa frustrazione per la mancanza di possibilità che una piccola località montana calabrese offre loro rispetto alla vita condotta nella grande capitale Kabul.
Quando entriamo in casa loro per intervistarli, emerge chiaramente la voglia di raccontare a qualcuno che sia estraneo al SAI la loro condizione: è chiaro che siano alla ricerca di qualcosa che i loro responsabili non sono ancora riusciti a garantirgli.
Veniamo accolti con gentilezza e cortesia. Le buone maniere sono evidenti e ci mettono subito a nostro agio offrendoci del the. Prima, però, si assicurano che le donne di famiglia non siano in sala, perché altrimenti avrebbero dovuto coprirsi il capo con il velo.
A parlare con noi è Emal, il più grande tra i figli, il dermatologo. Immediatamente si capisce che l’andamento della conversazione sarà diverso da quella con Zubair. Cambia l'atteggiamento di chi ci parla, cambia l’energia con cui descrive la sua condizione, cambia finanche la scintilla negli occhi di chi guarda verso un futuro che sembra essere ormai costretto a tradire le aspettative che aveva felicemente creato fino a poco tempo prima.
Emal sembra avere le idee chiare su cosa dirci e le scandisce ripetutamente quasi fossero una formula magica:
"Good people here, but the problem is future!”.
Nel tentativo di farli sentire più a proprio agio, proviamo ad allontanare tutti gli operatori SAI presenti in cucina. La sostanza, però, non cambia. Emal sembra davvero essere riconoscente a tutte quelle persone che, in un modo o nell’altro, rappresentano adesso la sua nuova casa. Quelle di Rota sono brave persone - ripete spessissimo - ma in quel paese lui e i suoi familiari stanno vivendo una sorta di prigione dorata. Le scarse possibilità di poter fare qualsiasi tipo di attività, rese ancora più difficili dall’attesa di ottenere lo status di rifugiato – l’udienza è stata fissata per fine maggio – costringono i Rahmani a trascorrere giornate intere chiusi in casa. Il ragazzo lamenta la lontananza dalla città, la mancanza di parchi e spazi di socialità dove trascorrere il tempo libero in maniera aggregativa, ma soprattutto l'assenza di ospedali, scuole e università.
La questione, in realtà, è più complicata di così. Il SAI è riuscito infatti a garantire ai suoi fratelli la possibilità di avviare un percorso scolastico: i più piccoli andrebbero a Cosenza, i più grandi a Bisignano, un altro paese lì vicino.
A questo punto della storia entra però in gioco un altro fattore: il padre. Orgoglioso, autorevole e di vecchio stampo, il capofamiglia non accetta l’idea che i suoi figli possano separarsi e affrontare la loro nuova quotidianità in maniera tanto diversa gli uni dagli altri. Per il momento, quindi, la questione è accantonata, e anche i più piccoli continuano a non avere nulla da fare, in attesa che gli operatori riescano a convincerli diversamente.
In casi come questi, il ruolo degli operatori diventa particolarmente complesso. Sono loro, infatti, a dover gestire il difficile equilibrio tra il lavoro che effettivamente possono svolgere e il disagio personale di queste persone. Molto spesso senza neanche avere a disposizione i mezzi necessari per poter ottemperare alle richieste avanzate. E allora, in queste occasioni, si ritrovano tra due fuochi. Da una parte, il peso delle difficoltà delle famiglie che ospitano. Dall'altra, la complessa, difficile, perfettibile, ma comunque funzionante macchina burocratica della rete SAI nazionale. Nel mezzo ci sono loro, emissari sul campo, chiamati di volta in volta a dover trovare il modo migliore affinché la propria missione riesca ad andare oltre il solo assistenzialismo.
Informato della nostra presenza, anche il signor Rahmani ci raggiunge. Come Emal, anche l'ex militare è ben disposto nei nostri confronti e felice di poter finalmente parlare con qualcuno di diverso dal solito della loro nuova condizione familiare. Pur avendo lavorato tanti anni con gli italiani ad Herat, conosce solo poche parole della nostra lingua e zero in inglese. È il figlio, dunque, che traduce per lui. Che sia l’uno o l’altro, però, il mantra si ripete sempre uguale.
Il padre pone maggiormente l’accento sul suo rapporto con l’Italia. Diversi suoi amici hanno trovato rifugio in altri paesi europei. Lui, però, ha scelto autonomamente di venire qui. In Italia - lo sottolinea più e più volte - si sente a casa propria. In effetti, continua dicendoci che i piani che ha in programma per il futuro della sua famiglia prevedono infatti di rimanere ancora qui, nel nostro paese, tra quella che già prima di partire considerava la sua gente. Quello che si augura, però, è che possano quanto prima trasferirsi in una area diversa, magari una città in cui i suoi figli e sua moglie possano godere dei servizi necessari a garantirgli uno stato di benessere maggiore. Neanche lui nasconde la sua gratitudine verso Rota Greca e i rotesi, ma come il figlio sembra essere ossessionato solo dal futuro della sua famiglia.
Ascoltando la loro storia, mi è sorto naturale chiedere ai miei due interlocutori perché non avessero sfruttato la rete relazionale che un alto ufficiale NATO aveva certamente sviluppato nei suoi 14 anni di collaborazione con il contingente italiano ad Herat. La risposta è stata semplice:
“My father does not ask for any help”.
Piuttosto che allarmare amici ed ex colleghi, i Rahmani hanno dunque preferito seguire il percorso ufficiale previsto per persone del loro calibro. Dopo una tappa intermedia a Teheran, il corridoio umanitario li ha condotti quindi nella rete nazionale dei SAI italiani, dove è stata scelta per loro la località di Rota Greca per via della capacità di ospitare, senza disunirlo, un nucleo familiare così grande. Non avendo chiesto altra intercessione personale, resta ora solo da aspettare, in attesa di sapere cosa sarà del loro futuro.
Al di là di quali saranno gli esiti della loro vicenda personale, a noi basta sapere quanto ci abbiano raccontato. Per dovere di cronaca, pochi giorni dopo la nostra partenza gli operatori del SAI ci hanno informato che il signor Rahmani sembrerebbe, come era prevedibile, aver cominciato a riconsiderare la possibilità di mandare i propri figli in due scuole separate. Con il tempo, è assai probabile riusciranno a rompere l'inerzia, adattandosi sempre di più al nuovo contesto in cui si sono ritrovati.
A prescindere da come effettivamente andrà però, questa storia tanto intensa lancia comunque un messaggio fondamentale. E cioè che non importa la provenienza, la nazionalità, lo status civile ed economico, il luogo in cui sei nato o quello in la vita, in un modo o nell'altro, ti conduce. Esistono invece delle cose che sono universali e che appartengono per loro stessa natura a tutti gli esseri umani.
Prendete i Rahmani. Pur avendo parlato per quasi due ore con noi, il concetto che vogliono esprimere è solo e solamente uno: un padre di famiglia e un fratello maggiore sono seriamente preoccupati per il futuro della propria famiglia. Senza conoscere la loro storia, potreste mai dare una connotazione nazionale a questo tipo di cruccio?
In questo senso, allora, il nostro viaggio nella Catena Costiera cosentina trova quindi la sua degna conclusione. L’opera di accoglienza che abbiamo avuto modo di conoscere ha il valore e merito di dare una nuova possibilità a persone che, quale che sia la ragione - ma tutte, sempre, egualmente degne di rispetto - hanno avuto la necessità di cambiare radicalmente la propria vita. E lo fa non tanto offrendogli le condizioni materiali di sopravvivenza: anzi, osservandolo dalla prospettiva di chi è impegnato quotidianamente nell’amministrazione di questo territorio, abbiamo visto che in termini economici chi ne beneficia di più sono le stesse comunità che attivano programmi di questo tipo.
I casi realmente virtuosi, allora, sono quelli in cui l’integrazione avviene prima di tutto su un piano umano. Quelli in cui, cioè, persone che mai nella vita avrebbero pensato di incontrarsi, si riscoprono invece capaci di instaurare un rapporto di empatia reciproco. Una nuova vita, certo, per chi arriva, ma anche per chi, fianco a fianco ai loro nuovi vicini, li accoglie all'interno delle proprie comunità.
In questo modo persone, culture, identità, tradizioni tanto diverse tra loro solidarizzano e si intrecciano, creando i presupposti di una nuova, eterogena e multiculturale, umanità.
Accoglienza e integrazione, in fondo, non dovrebbero voler dire nient’altro che questo.
Chi sicuramente ha avuto la capacità di sintetizzare più efficacemente di me questa idea - in cui credo fortemente - è Alessandro Franzese. Assessore al comune di Rota Greca con delega al progetto, Alessandro è stato colui che si è speso per portare i Rahmani all’interno della sua piccola comunità. Non solo, è anche colui a cui dobbiamo l'esistenza di questo stesso reportage: se ho avuto la possibilità di conoscere questa bellissima storia, di recarmi di persona sul luogo e di avere tutti questi contatti è solo ed esclusivamente merito suo. Si è poi messo a disposizione in ogni modo, accompagnandoci in ogni tappa del percorso e non facendoci mancare nulla.
Con la massima umiltà e trasparenza che lo contraddistingue, Alessandro ha fatto di questa visione dell’accoglienza la cifra del suo programma politico, comprendendone prima di altri l'importanza che poteva avere per la comunità in cui è nato e cresciuto.
Più di tutto, però, ne ha saputo fare una missione. Con una sensibilità che va oltre il suo ruolo di amministratore infatti, Alessandro ha risposto a una domanda per me fondamentale, sublimando lui per tutti la vera morale di tutta questa storia. E allora, se anche voi alla fine di questo viaggio vi stavate ancora chiedendo quale sia la molla che spinge comuni, associazioni e comunità intere a mettere in moto una macchina così complessa, la risposta è proprio negli occhi e nelle parole di persone come Alessandro, Daniele, Maria Ida e Silvio. Quello che tutti loro ci hanno insegnato, infatti, è che per compiere un atto d'amore come quello rappresentato dalla rete d'accoglienza della Catena Costiera cosentina, bisogna sentire sulla propria pelle il valore universale dell’umanità, al di là di qualsiasi tipo di tornaconto personale possa esserci in gioco.
Non credo ci sia, quindi, modo migliore per salutarci se non con le parole scambiate proprio con l'assessor Franzese nella sala consiliare del suo amato comune, che meglio di tutto il resto chiudono il cerchio di questa bellissima storia d'accoglienza.
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L'assessore con delega di Rota Greca Alessandro Franzese e io al termine della nostra intervista presso la sala consiliare del comune
L'assessore con delega di Rota Greca Alessandro Franzese e io al termine della nostra intervista presso la sala consiliare del comune